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Un caso avvolto nel mistero da ormai 35 anni. Una donna uccisa in modo brutale lungo i sentieri delle Dolomiti e ritrovata come in una scena di un macabro rituale. La morte di Maria Luisa De Cia è ancora oggi un “cold case”, un omicidio rimasto irrisolto. Non c’è traccia, né dettaglio che possa condurre gli inquirenti all’assassino. Da quel 16 agosto 1990, i sospetti non sono mancati, le inchieste sono state più volte aperte e poi archiviate senza trovare un responsabile, nonostante le indagini siano arrivate fino in Germania. Eppure, il mostro delle Dolomiti non è mai venuto allo scoperto. Se n’è discusso durante il programma Incidente Probatorio, in onda sul canale 122 Fatti di Nera, tra vecchie ipotesi, piste alternative e l’ombra di un possibile serial killer.
Maria Luisa aveva 28 anni, era fidanzata e stava programmando le nozze con il suo ragazzo. Quella sarebbe stata la sua ultima vacanza con i genitori. Aveva vissuto da sola per un anno in Germania, era tornata in Italia, poi era andata via da Sovramonte, in provincia di Belluno, l’anno precedente, dopo una relazione finita male, e viveva a Cornuda (Treviso), dove aveva conosciuto il fidanzato. Era descritta come una ragazza socievole, indipendente, tranquilla, e aveva scelto di tornare a casa il 3 agosto per le vacanze.
Il mistero inizia il giorno dopo Ferragosto 1990, durante una normale giornata di villeggiatura a Sovramonte. Quella mattina, Maria Luisa avrebbe ricevuto una telefonata, poi lasciò un biglietto ai genitori per informarli che sarebbe andata a fare una passeggiata verso la Madonna del Velo, lungo un sentiero molto apprezzato dai turisti. A destinazione, però, la 28enne non arrivò mai. Diverse testimonianze riferiscono di averla vista parlare con una persona, di aver raggiunto un bar a bordo della sua Fiat Panda rossa; alcuni escursionisti hanno parlato di un colpo d’arma da fuoco, altri di aver udito due urla provenire dal bosco. Altri ancora raccontano di aver visto tre uomini fuggire verso una Fiat 127 poco dopo lo sparo. Il giorno successivo, venerdì 17 agosto 1990, un altro gruppo di escursionisti si imbatté nel corpo straziato e senza vita di Maria Luisa De Cia. La scena era agghiacciante: la ragazza era nuda dalla vita in giù, distesa a terra su un giaciglio fatto con i suoi stessi abiti, indossava solo i calzini e aveva le gambe divaricate. Del nastro adesivo nero le chiudeva la bocca, mentre la causa del decesso era un colpo di pistola esploso alla tempia sinistra. Seviziata, ma non violentata, Maria Luisa era stata legata, uccisa e poi abbandonata lì nel bosco, al centro di un prato, uno spiazzo quasi circolare, tutto circondato da grossi alberi. Una scena da film, che evoca la trama di un pessimo giallo senza finale, mai risolto.
Le prime indagini furono archiviate nel 1993, tra identikit, false piste, una trasferta in Germania e ipotesi che non trovarono mai riscontro. Dopo 17 anni, nel 2010, l’inchiesta venne riaperta e l’attenzione degli investigatori si concentrò su un sospettato: un imprenditore 60enne, proprietario di una baita a due chilometri dal sentiero dove fu ritrovata la ragazza. Le indagini non portarono a nulla, anche perché il test del DNA escluse totalmente che le tracce biologiche ritrovate sul cadavere potessero essere riconducibili al 60enne. Da allora, è calato il silenzio sul killer dei boschi, autore di un crimine brutale e inspiegabile tra le cime delle Dolomiti.
Secondo il professor Tommaso Spasari, docente di Medicina legale a Unicusano, potrebbe non trattarsi di un unico assassino: “La scena del ritrovamento suggerisce che sia verosimile la presenza di più aggressori. La modalità sembra rievocare un delitto a sfondo sessuale, anche se dagli esami autoptici non sembra che la vittima fosse stata violentata. Di sicuro si tratta di un omicidio commesso per impedire l’identificazione dei colpevoli. La vittima fu uccisa con una classica modalità attuata per avere la certezza che non sopravvivesse e che la funzione cognitiva fosse annullata, anche in caso di sopravvivenza. Un proiettile alla tempia comporta una lesione gravissima del sistema nervoso centrale. È evidente la crudeltà, si percepisce una forma di sadismo sessuale, e il fatto che non ci siano tracce di violenza fa pensare addirittura che l’assassino non potesse avere un rapporto sessuale, ma volesse averlo, ricercando un appagamento sadico nella sofferenza della vittima”. Tra i dettagli sottolineati dal professor Spasari anche la scena del crimine che “fa pensare a una sorta di ritualità. Non mi sento di escludere la possibilità che fosse un assassino seriale, che poteva essere anche un turista o qualcuno del luogo che lavorava fuori e tornava per la vacanza come lei”.
“Tra le varie cose ritrovate sul corpo della ragazza in sede autoptica – ha sottolineato Mary Petrillo, psicologa e criminologa – ci sono anche dei proiettili artigianali, uno trovato inesploso, l’altro ha causato la morte di Maria Luisa. Ciò fa pensare a un cacciatore esperto di armi, che potrebbe aver scelto un’arma che lascia dei segni particolari, una sorta di firma. Sarebbe interessante capire chi potesse avere proiettili modificati da quelle parti”. Secondo Elisa Brunelli, avvocato civilista, si tratta di “un killer sganciato dalla realtà, che ha agito in un posto per lui ben noto, con un’arma artigianale, non ordinaria, quindi uno competente che aveva contezza del luogo ed esperto di balistica”. Per l’avvocato Elisabetta Aldrovandi, nonostante l’assassino abbia agito di giorno in un luogo molto frequentato, “lo staging dopo il delitto, con la modifica della scena del crimine, ha richiesto tempo. Si tratta di un delitto premeditato. Secondo me la vittima non è stata seguita e costretta ad appartarsi, credo che conoscesse un aggressore”.
La puntata sul caso di Maria Luisa De Cia e altri approfondimenti su cronaca nera e cold case come quello di Nada Cella, sono disponibili sulla piattaforma Cusanomediaplay.it.